InDivenire. De rerum natura – Alessandra Redaelli

Negli anni Sessanta del Novecento, l’inserimento nell’arte dei materiali della natura è un momento di passaggio fisiologico. La rivoluzione delle avanguardie ha portato come effetto secondario la pulizia da tutte le sovrastrutture e il ritorno alle origini appare come l’esito prevedibile e inevitabile del percorso. Se la cultura anglosassone esplicita questa esigenza attraverso la Land Art (pensiamo alle passeggiate solitarie di Richard Long, che lasciano sentieri di erba schiacciata, o alle costruzioni poetiche di Robert Smithson come la Spiral Jetty sul Grande Lago Salato) in Italia si afferma il movimento dell’Arte Povera. Con Mario Merz che affastella rami nella costruzione dei suoi igloo, riportando l’uomo troppo addomesticato alle regole della natura (con la sua ossessione per la sequenza di Fibonacci), e con Giuseppe Penone, l’uomo che sussurra agli alberi. Penone, con i suoi interventi delicati in cui un calco della sua mano si aggrappa a un giovane tronco per imprimervi il suo segno e rimanervi fuso per tutta la lunga vita dell’albero (che vi crescerà intorno in un abbraccio). Oppure con i suoi sistematici lavori di scavo intorno all’albero adulto fino a rivelarne l’essenza, la pianta giovane che ancora vi dorme dentro, in un disvelamento che non ci parla della natura come altro da noi, ma che finisce per avvicinarcela, per apparentarci a lei.

Oggi per alcuni artisti parlare di natura è un’esigenza che va molto al di là dell’operazione nostalgica o di ritorno alle origini, e che non può prescindere da una presa di posizione forte rispetto a un problema di salvaguardia del pianeta più urgente che mai. C’è Olafur Eliasson, che nel 2015 trasporta blocchi di ghiaccio nel centro di Parigi in occasione della XXI conferenza sul cambiamento climatico, per mettere sotto gli occhi di tutti la velocità con cui il ghiaccio si scioglie, costantemente, senza tregua, anche dove dovrebbe essere eterno. E poi ci sono artisti come Wolfgang Laib o Ernesto Neto, che come chef sopraffini ci deliziano con i profumi e i colori della natura – dal latte al polline, alle spezie – attraverso installazioni immersive che agiscono sui nostri neuroni come la madeleine di Marcel Proust, riportandoci a un tempo primordiale del quale avevamo perso le tracce.

Silvia Canton fa tesoro della lezione di chi è venuto prima di lei e la rielabora nel suo linguaggio personalissimo, inserendo di fatto la natura – nello specifico un pezzo di sughero vergine – nella pittura e dandole di volta in volta il compito di interpretare se stessa oppure di farsi metafora di un mondo che sta mutando, o addirittura di farsi simbolo di un’umanità che ha voglia di tornare a sentirsi natura lei stessa. Il sughero l’ha chiamata un paio di anni fa. L’ha sedotta con la sua consistenza ruvida e irregolare, con la sua unicità e imprevedibilità. E lei ha voluto farlo suo perché conquistata dal suo carattere indomabile, dal fatto che inevitabilmente, decidendo di appropriarsene e di renderlo parte della pittura, lei avrebbe dovuto arretrare di qualche passo, cedergli uno spazio di manovra che avrebbe portato il lavoro su strade che lei stessa non era in grado di immaginare. Lo sceglie (e confida che in quel momento avviene una sorta di innamoramento) e poi lo taglia, certo. Lo modifica. Qualche volta lo dipinge, perché entri a confondersi nella materia pittorica, altre volte lo spennella di resina per conservare il più possibile dei residui vegetali (i residui di vita) che lo ricoprono. In certi casi decide di trattarlo con la polvere di ferro e di ossidarlo, per svelare un’identità ibrida, metallica, rugginosa, spiazzante. Ma la sua anima selvaggia e autentica resta intatta e leggibile. E poi ci sono le volte in cui il pezzo è così perfetto, così magnificamente già compiuto in se stesso, che l’artista decide di dare al sughero la priorità, di semplificare la narrazione pittorica e di fare che sia lei, la natura, a parlare lì con la sua voce più autentica. (Pensiamo a un’opera come Abissi, sinfonia di bruni trasparenti e colanti che ruotano intorno al frammento di sughero come se fosse stato lui stesso a imprimere il movimento al pennello).

La natura vera che di fatto irrompe in maniera così violenta dentro una narrazione – anche questa – sostanziata di natura, non si limita a darci un resoconto, una suggestione. Silvia Canton non dipinge dei paesaggi con pezzi di paesaggio, l’operazione che compie è molto più complessa. Questo è un punto fondamentale. La fusione dell’artificiale – la pittura – con il reale – il sughero – non punta mai alla mimesi: qui piuttosto l’artificio si fa permeabile al vero, vi si abbandona, lasciandosi compenetrare da quel pezzo di realtà fino a identificarvisi. Quello dell’artista, dunque, non è mai semplicemente un racconto naturale, ma si rivela un percorso di consapevolezza all’interno di quella natura di cui ci parla, un’analisi che punta a recuperarne la storia fino alla sua elementarità primordiale e fino al dettaglio delle sue infinite e inesauribili metamorfosi. La sua evoluzione dal caos all’ordine. L’evoluzione del nostro pianeta e del nostro stesso essere. Quando si osserva un’opera come Crisalide, ad esempio, non si può fare a meno di vedere in quel nucleo d’oro che sta esplodendo un momento della creazione dell’Universo. E tuttavia lì, in quel solco dormiente nella terra bruna, c’è anche l’umile vita del seme, il suo cammino segreto per diventare pianta. Il macro e il micro, la storia millenaria e il segmento temporaneo di un secondo. L’introduzione dell’oggetto – quindi, di fatto, il passaggio dalla pittura alla tecnica mista – è per Silvia Canton il mezzo per dare ulteriore spazio alla sua sete di spessore e di realtà. E la natura tridimensionale e materica delle opere non è soltanto un modo per saldarci al concreto, ma anche il pretesto per far scattare una sofisticata trappola per lo sguardo, che invade il nostro spazio, ci prende per mano e ci porta dentro, al centro del tutto.

Non è una pittura facile da classificare, quella di Silvia Canton. La vocazione gestuale che spinge spesso l’opera verso l’astratto va costantemente a scontrarsi con un bisogno di figurazione che appare ineludibile. C’è sempre, sottopelle, un conflitto, una frizione. Tra la materia pittorica selvaggia e le suggestioni nobili che rimandano alla grande storia dell’arte. Tra istinto e controllo. Tra sentimento e ragione. Anche prima di questa nuova serie, così fortemente radicata intorno alla presenza del sughero, sulle sue tele sembravano trovare un’impensabile armonia le fioriture Liberty, sciolte in curve sinuose, e la pennellata potente dell’espressionismo astratto. Il colore esplodeva, la materia dilagava sulla tela seguendo le setole del pennello per poi sciogliersi e colare in rivoli acquatici, quasi pacificarsi in quello sgocciolamento. E dopo, quando lo sguardo riusciva a lasciare la direzione delle pennellate e si permetteva di esplorare lo spazio pittorico nei dettagli, l’occhio scopriva piccole montagne sulle quali si intravedevano fragili arbusti, oppure incontrava un’infiorescenza, o ancora, nel vorticare dei blu e dei bruni (i colori del cielo, del mare e della terra) scopriva l’improvviso accendersi di una fiamma rossa, quasi una visione che di colpo catalizzava l’attenzione e diventava il centro stesso dell’opera.

E oggi, in queste opere costruite intorno al sughero, è come se ogni volta Silvia Canton scegliesse un punto di equilibrio diverso. Un centro focale (l’astrazione, la narrazione, la suggestione, la citazione) che ci offre come punto di partenza per una lettura che è sempre un dipanarsi lento, una serie di consapevolezze e rivelazioni successive che non arriveranno mai – e così deve essere – a un completo possesso del lavoro, lasciando sempre alla fine quel dubbio che ci incanta. Prendiamo Il grande pesce, un’opera emblematica che da sola potrebbe spiegare l’intera poetica dell’artista. E’ un dipinto di grandi dimensioni: una marea montante di oro e di terre che sembra voler avvolgere lo spettatore in un abbraccio al tempo stesso seducente e terrificante. Il titolo è apparentemente semplice e calzante sull’iconografia, ma la vicenda che si svolge lì, su quel rettangolo denso di sostanza e di colore, è immensa. Il frammento di sughero vergine che dà il titolo all’opera appare come una ferita bruna al centro del lavoro, una ferita aperta, una piaga suturata di fretta dopo essere stata disinfettata con materiali di fortuna. Intorno, la materia è ruvida, scabra, incisa da graffi che all’improvviso si rivelano forse elementi vegetali, ma di una vegetazione ostile, aggressiva: un intrico di rovi. O magari, piuttosto, si tratta dei tentacoli di una bestia marina. Se il titolo vuole spingerci, in effetti, a pensare al mare, le tonalità su cui si gioca la tavolozza sembrano contraddire questo indizio e portarci verso un sottobosco brullo, autunnale, dove la vita è sopita e dove ne restano solo poche tracce. Perché la natura tutta, dalla terra al cielo al mare, è un unico elemento dominato da una sola anima e da un immenso respiro, e questo Silvia Canton lo sa bene. E’ un’opera forte, Il grande pesce: dura, difficile e bellissima. Bella di quella sua semplicità primitiva che sembra parlarci di un caos primordiale non ancora ordinato e che vanta ascendenze importanti. Una su tutte quella di Alberto Burri. C’è la tela grezza di Burri in quelle terre luminose e cangianti, e ancora è Burri a sussurrare nel sughero che catalizza lo sguardo, bruno e coriaceo come i suoi cretti. I pesci, tra l’altro, sono un elemento ricorrente, nel lavoro di Silvia Canton, anche per la loro ricca simbologia religiosa. Oltre a Il grande pesce c’è lo spettacolare Mattanza, dove la forma è ricostruita per sezioni e dove la morte di un piccolo animale appare circonfusa di una drammaticità solenne. E poi c’è il pesce d’oro di Amo (titolo squisito, nel gioco di parole racchiuso in quelle sole tre lettere) che ci fa pensare al primo pesce, al padre di tutti i pesci, mentre quel mare rosso e rugginoso sembra sgorgare da un cuore che batte. E se ai primordi della natura rimandano le opere che alludono al caos originale, ai primordi dell’uomo ci portano lavori come Piccola madre, dove il sughero incrostato di residui vegetali si fa utero, abbraccio, e dove l’andamento circolare dello sfondo, aperto in una voragine nella quale lo spettatore vorrebbe lasciarsi cadere, rivela il pulsare di una luce rossa come un piccolo cuore. La potenza istintiva che l’artista imprime al gesto pittorico, poi, non le impedisce di lanciarci qualche lieve messaggio, di regalarci qualche omaggio più o meno esplicito alla grande arte del passato.Come nelle gioiose cromie di Regina, dove il gesto circolare e la scelta dei rossi, dei turchesi e dei gialli sembrano inscenare una danza dedicata a Sonia Delaunay.

Ma ci sono anche le situazioni in cui la pittura avverte il bisogno di trasformarsi in cronaca, in denuncia. Nel settembre del 2019 l’artista decide di fare un’escursione nei boschi di Croce D’Aune, sulle Dolomiti bellunesi. Chiunque si sia avventurato nelle zone devastate dalla tempesta Vaia – la tempesta che nell’ottobre del 2018 ha colpito l’Italia, abbattendo milioni di alberi – ha perfettamente presente il senso di desolazione e di smarrimento che si prova davanti allo spettacolo di quello che resta. Chi poi ha avuto occasione di rivedere dopo l’uragano luoghi che aveva conosciuto prima, in cui era abituato a camminare, si è reso conto di aver perso tutti i punti di riferimento, ostaggio di un panorama mutato, di scorci prima impensabili e ora stranianti. Si resta sconcertati davanti a quelle montagne di alberi uccisi, straziati, pallidi come cadaveri, impilati uno sull’altro come in un macabro gioco dello shanghai. E tutta la nostra piccolezza ci appare evidente, davanti alla desolazione dei giganti abbattuti. Anche l’artista è rimasta lì a guardare, straziata, imprimendosi nella retina uno spettacolo che avrebbe voluto invece subito dimenticare. Poi è tornata a casa e finalmente ha preso quel pezzo di sughero, proprio quello che conservava da un po’, perché era così bello, così potente! Lo ha preso e, di getto, è nata Vaia, un’opera dinamica, vorticante, dove l’imprimersi della pennellata sulla tela è a tratti vento incalzante e a tratti tronco tagliato del quale si possono leggere gli anni nei cerchi concentrici della sezione, in cui la pittura si alza in onde che sono al tempo stesso folate e rami, e in cui il sughero si pianta come un paladino, una protezione. Una possibile redenzione e un’auspicabile rinascita.

E con premesse simili è nato anche Acqua Granda dedicato a un altro dei luoghi devastati dalla furia di una natura esausta. Una visione di mare e di terra che si scontrano e che lottano in una Venezia che è oramai solo ricordo, simboleggiata dalla sua cattedrale di San Marco che si libra come un vascello fantasma, oramai sradicata, rapita al mondo.


Resiliente fioritura – Corrado Castellani

Se ci chiediamo qual è il nucleo generativo della pittura di Silvia Canton, la matrice originaria da cui deriva il suo dipingere, ritengo che possiamo individuarla nella necessità e nell’urgenza di esteriorizzare contenuti emotivi di rilievo che non riescono a trovare una diversa modalità di espressione.

Read More

Resiliente fioritura – Chiara Voltarel

Dal turbine tenebroso di un uragano si liberano nelle luci e colori di un’aurora boreale e, prima travolti, poi avvolti dolcemente, germogliano delicati petali.
È la forza della vita, che riconosce la debolezza per affrontare le difficoltà e quasi magicamente, ritrova la capacità di sfidare le avversità, trasformare il dolore in coraggio e fiducia per superarsi e uscirne rafforzata: la resilienza.

Le opere di Silvia Canton sviluppano questo tema, la resilienza, atteggiamento conseguente ad un sentimento, di valenza planetaria e che trova origine nella notte dei tempi.

La sua è una pittura carica di simbolismo, che si focalizza intorno alla natura, immensa fonte d’ispirazione. Una natura donatrice di vita e di nutrimento e la Madre Terra, protettrice delle energie primarie e grande genitrice di tutte le forme viventi. La terra viene definita nella Genesi “materia prima” e, da questa antica concezione della “terra madre” che forgia dalla propria sostanza tutte le forme viventi, uomo incluso, la terra è sorgente di vita, essa ci nutre, ci sostiene ed ha quella incredibile capacità di trasformare ciò che è impuro in bellissime creature viventi -fiori e piante-, con una generosità senza pari, anche dove sembrava essere negata qualsiasi esistenza.

Un nutrito corpus di opere colgono il momento della fioritura, uno spettacolo che vuole essere metafora e pretesto per esprimere pensieri, intensi sentimenti e forti emozioni. L’elemento figurativo, in questo caso tratto dal mondo naturale, si perde e armonizza nell’informale, creando delle visioni poetiche.
Piante fluttuanti o in balia degli eventi, alberi o racemi con le forti radici, si curvano alle tensioni, ma trovano comunque la forza di germogliare e sbocciare. Elementi fitomorfi tanto delicati e pittoricamente raffinati da divenire eleganti arabeschi. (Serie delle Fioriture; L’albero della vita; Il buon gigante, Radici, Vanità).
Possiamo scorgere suggestioni diverse. Uno sguardo è rivolto al Liberty non solo per la ripresa dell’elemento naturale e per il linguaggio caratterizzato in alcune opere dalle linea-forza, linea sinuosa, ma anche per il senso di leggerezza e per la cura dei particolari.
Dipinti che colpiscono quindi oltre che per l’originalità, anche per l’innegabile bellezza dei soggetti, degli accostamenti cromatici tratti da una tavolozza accesa e per la delicatezza delle sfumature.
Ma osservando queste opere riconosciamo anche un’inclinazione pittorica all’estetica romantica del sublime, per il modo in cui l’artista si pone di fronte alla natura, immensa ed infinita, consapevole della sua personale piccolezza.

È una pittura di sperimentazione e ricerca, in continua evoluzione, sia per i soggetti che seguitano a mutare e rinnovarsi cercando sempre nuove combinazioni, ma anche per la tecnica pittorica. Resta sempre forte la gestualità, è quasi sempre presente la pennellata incisiva e materica, ma a questa è associato un intervento di sottrazione con colature di varie sostanze, arrivando a far intravvedere la tela.
Operazioni che creano effetti straordinari di luce che sembra sprigionarsi dall’interno del quadro, elementi che si liquefanno, che perdono peso o creano frammentarie texture.

Sono opere interiori, che sussurrano dolcemente e parlano di sentimenti, emozioni, ricordi, esperienze personali che si liberano nel gesto, nel lavoro a volte placido altre più tormentato.
Ma in questo incantevole microcosmo si può scorgere l’intero universo.

Asolo 1 settembre 2018


Tormente, tormenti – Corrado Castellani

La pittura di Silvia Canton scaturisce dal compenetrarsi di visioni ed emozioni. Lontana dalla pretesa di dire la verità sul mondo, l’artista si concentra sulla propria interiorità e ricorre alla potenza simbolica dell’immagine per indagare aspetti e momenti del proprio sentire.

Il simbolo, intreccio di significati, è forse una delle nozioni che più si avvicina all’enigma dell’arte: è corrispondenza, connessione, in ultima analisi indistinzione di piani, resistente agli sforzi dell’analisi, che pure l’indagine critica non può esimersi dal tentare.

Le visioni dei dipinti si rifanno ad aspetti naturalistici, tutto sommato riconoscibili nonostante la presa di distanza da ogni realismo. Ma non è la restituzione del dato visivo l’obiettivo dell’artista, che si accosta alla natura attraverso un approccio mediato dagli esiti dell’informale novecentesco. Le emozioni corrispondono alle vibrazioni del sentimento, agli stati d’animo, vissuti e meditati attraverso un’inclinazione riflessiva che si traduce in una singolare profondità.

Fin dal primo sguardo si è colpiti dai vortici di energia, dai campi di forza, dalle dinamiche tumultuose che pervadono le tele. Il colore, acceso, rispondente ad una grammatica timbrica, si affida totalmente al ritmo veloce del tratto. Rapide pennellate ricurve agitano le superfici. Il segno, che in alcune occasioni richiama la morbida flessuosità della linea liberty, più spesso assume un ritmo fremente e concitato, si carica di inquietudine ansiosa, del tutto rispondente ad una visione di matrice romantica, ispirata dalla poetica del sublime.

In questi scenari si collocano eventi carichi di pathos.

Il soggetto – dell’agire, del reagire e del patire – insomma il protagonista, facente funzione di personaggio, su cui si concentra lo sguardo, è un punto arancione, che ritorna in opere diverse.

Tra il soggetto e il contesto, pervaso da turbini, folate, scuotimenti – vettori di instabilità e di pericolo – si sviluppa una relazione complessa. A volte si instaura una dialettica eroica, una contrapposizione che mette in risalto la resistenza a forze preponderanti. Sono celebrate la tenacia, la determinazione, il coraggio nel sostenere lo scatenarsi degli elementi. Altre volte affiora una ricerca di rifugio e protezione, oppure un vissuto di isolamento e di inibizione. Con elementi doppi – di matrice vegetale – viene allusa la possibilità di una relazione, che permetta il superamento della solitudine. Nel sapiente comporsi dei pesi visivi il vuoto rappresenta una minaccia incombente e fatale.

Questa pittura nasce da un intenso coinvolgimento personale dell’artista, che non esita a ricercare dentro di sé le motivazioni del suo fare arte. Le situazioni presentate sono esperienze vissute, proposte come riflessioni generalizzabili sullo stare al mondo degli umani. L’autenticità che le caratterizza è alla base della loro efficacia comunicativa. Ma questo non ha nulla a che vedere con una spontaneità ingenua e una facilità istintiva. Silvia Canton rivela una tecnica raffinata e un’ampia conoscenza della storia della pittura, insieme ad una singolare capacità di assimilare e di rielaborare le suggestioni di cui si appropria. Tutto si fonde in un originale codice stilistico e concorre a definire un elaborato programma espressivo. Ancora una volta la pittura conferma la capacità di proporsi come forma d’arte ad alta densità semantica.


GALERIE de L’ANGLE – Silvia Canton a PARIGI

L’artista e il suo amore per la natura.

È in questo santuario a cielo aperto, osservando il potere dei fiumi o la fragilità di un nido in equilibrio precario tra due rami, che Silvia Canton esplora l’architettura trascendentale del nostro mondo e il senso della nostra esistenza. Abbandonandosi all’immaginazione, racconta sulla tela bianca la sua esperienza, dove la delicatezza contrasta con i colori a volte violenti.

Questa libertà creativa non è per che apparente perché ogni tratto è in realtà attentamente pensato all’interno del suo racconto, dove il movimento esprime la potenza del sentimento, come ad esempio il tormento del colore. Il punto rosso-arancione acceso, elemento ricorrente in molti suoi dipinti, esprime la concentrazione di energia, l’esperienza, l’aspettativa e la paura. Un simbolo quindi della vita stessa.

Il lavoro di Silvia Canton e’ da scoprire come rilettura pittorica dello Sturm und Drang, movimento letterario che ha aperto la strada al romanticismo. I soggetti delle sue opere non si svelano immediatamente, ma toccano la sfera spirituale e, al di là dell’apparenza, portano sempre alla riflessione.


Testo critico – Chiara Voltarel

Nella pittura di Silvia Canton, si sente la musica, una Sinfonia creata da violino, violoncello e pianoforte, strumenti che sono per lei il colore, il pennello e la tela. Il colore come note musicali, la pennellata come una danza; tutto è mosso, in un clima intimistico, dalle riflessioni, dai sentimenti, dalle emozioni e da una lettura introspettiva.
Come in una sonata, le pennellate sgorgano con fluente irruenza, il colore a volte è un’energia per gli occhi e per l’anima, quel colore che si diffonde, investe e penetra dentro, con tutta la sua carica. In altre occasioni invece sembra placarsi e liberarsi in una luminosa e delicata intensità lirica e solenne.

La sua è pittura pura, densa, materica, la pennellata energica. È un’arte che vive dell’idea di una bellezza, di una bellezza fatta di semplicità.
Musa ispiratrice è la natura. Particolari insignificanti, arbusti, sterpaglie, alghe del fiume, tronchi, rami, vengono trasfigurati, non tanto nella forma, ma dalla potenza della pennellata e del colore.
Nella semplicità del soggetto, nella semplicità della pittura fatta con pochi mezzi: “tela, colore e sentimento”, come ama ricordare l’artista, ci suggerisce alcune riflessioni su aspetti e piaceri della vita che oggi stiamo perdendo. La bellezza di un ramo, delle scintille di luce delle gocce di pioggia, dei soffioni o delle sterpaglie pettinate dal vento. L’importanza e il valore di ogni istante nella consapevolezza della loro fugacità.

Il mondo che ci propone Silvia Canton ci cattura, ci avvolge come una spirale ed è inevitabile trovarci dentro una vita, una natura che a volte è travolgente, pulsante, in altri casi più pacata, accarezzata da un leggero movimento d’aria.

In un tessuto di fili, nodosi, tratti a volte intricati di un rinnovato liberty, le linee sinuose sprigionano un movimento carico di energia.
La pittura di Silvia Canton, sembra essere attraversata dall’elegante clima delle Secessioni, lo Jugendstil, dove tutto guardava alla “natura vivente”, alle dinamiche di crescita di organismi viventi. Il suo linguaggio infatti sembra orientarsi verso un linearismo di grande raffinatezza, sostenuto da un gusto decorativo e da un cromatismo prezioso. Come per i secessionisti, la natura diventa luogo di misteri e forze elementari, e l’arte si addentra in una linea simbolista. Nelle tele possiamo scorgere, al di là della figurazione, un’anima; le pennellate imprimono le più profonde emozioni, i ricordi, le angosce e le speranze. Nei suoi dipinti possiamo così trovare ombre di colore cupo, macchie scure che restituiscono momenti di inquietudine; in altri, tra grandi masse di colore carico, si insinua una scia bianca, uno spiraglio di luce che a volte si apre e si espande diventando una sorta di culla, un rifugio di pace e serenità. E ancora, tra l’intreccio delle pennellate, possiamo individuare delle presenze che colgono un senso più ampio dell’esistenza e della vita e diventano i protagonisti misteriosi di un inconscio che emerge e può sfociare in una poesia.
È la magia dell’arte, di un’arte che, se vogliamo, va contro corrente, non urlata, non violenta, non scandalosa, ma discreta, che crede nella potenza della pittura e nella sensibilità dell’animo umano ed auspica che troverà occhi nei quali consumarsi.

Chiara Voltarel


Testo critico – Andrea Brunello

L’arte di Silvia Canton nasce dalle piccole cose, dagli aspetti semplici della vita quotidiana. È una lente di ingrandimento sui particolari che ai più passano inosservati perché, come lei stessa dichiara “non sappiamo più guardare”.
Distratti dai rumori di una vita sempre più frenetica passiamo ignari davanti ai dettagli della natura che sono invece al centro dei dipinti di questa giovane artista. Gocce di pioggia, tronchi d’albero, salici, ranuncoli, il fiume Sile: questi i soggetti dei suoi quadri, quasi tutti grandi e di formato quadrato.
Quello che più mi ha stupito, e continua ancora a stupirmi quando guardo le opere di Silvia Canton, è lo scarto netto tra la semplicità di una fonte di ispirazione così apparentemente piana e la forza dirompente che i suoi quadri emanano.
Non c’è quiete nei suoi dipinti: tutto è ricerca, osservazione, scoperta continua e incessante. Colpisce il cromatismo delle sue tele, questi colori decisi ,dove i blu si alternano ai rossi, e che svelano un’interpretazione tutta personale a discapito della mera rappresentazione. È il carattere dell’artista, la sua più intima personalità, che si fa spazio ed emerge attraverso la rappresentazione della natura.
Con pennellate instancabili, Silvia Canton sembra imbrigliare la tela con un’insistenza del tratto che non è mai lasciato al caso. Vedo riflesse nei suoi quadri le volute dei sui ricci capelli ramati in una rispondenza perfetta tra l’animo dell’artista e il suo lavoro. L’affastellarsi delle pennellate continue non lascia spazio all’indifferenza, ma cattura lo sguardo costringendolo a seguire i vortici e le spirali dei suoi dipinti.
“Dentro l’albero”, ad esempio, mi strega per l’avvicendarsi dei rami che da radi diventano, in basso, sempre più fitti. E poi la luce chiara e adamantina che penetra le fronde lasciando lo sguardo libero di vagare. Quasi che la parte alta dell’albero fosse in disaccordo con quella più in basso e instaurasse così un dialogo che si crea appunto dentro l’albero.

Nelle “Gocce di pioggia” scorgo invece un’attenzione per il particolare minuto e lieve a cui Silvia Canton dona sostanza ponendolo, anche solo per un attimo, al centro del Mondo. Il rosso e l’oro si avvicendano su questa tela creando preziosi ricami ed evocando, forse inconsciamente, la sua esperienza nel settore del costume teatrale.
La caparbietà di chi ha deciso di inseguire il sogno di fare l’artista e di percorrere una strada in salita, senza lasciarsi scoraggiare dalle difficoltà, si percepisce, a mio avviso, proprio in questi dipinti così personali che, con il pretesto di narrare un accidente della natura, si rivelano invece racconti privati di un animo profondo.

Andrea Brunello (Amministratore delegato di Artematica)


Testo critico – Daniel Buso

La pittura di Silvia Canton è ricerca. Indagine inclusiva di molteplici aspetti del mondo sensibile. Non v’è traccia di presenze umane, nessun dettaglio riconducibile a una qualche forma di artificialità. Le sue creazioni, figurative ed astratte simultaneamente, sono dotate di una tale leggerezza che le parti di cui sono composte paiono muoversi all’unisono, riverberando una sinfonia che solo in natura o in poesia è rintracciabile. È il principio del movimento cosmico che, umilmente, Silvia Canton ritrova nell’incanto delle piccole cose. Tale dinamicità, benché sia riconoscibile in ciò che tutti quotidianamente sperimentano nell’atto stesso di immergersi nella natura, appare inequivocabilmente spingersi oltre la semplice trascrizione di un fenomeno en plein air. Infatti, il colore, le linee, perfino la pennellata, sperimentano un gioco decorativo che trasfigura progressivamente il soggetto, negandogli la dimensione originaria di immediatezza percettiva. In questa fuga, Silvia Canton escogita una pluralità di strumenti per celare il mero aspetto delle cose e lasciar affiorare l’emozione che sola conta e che sola vale la pena di comunicare. I dettagli naturali, in un primo tempo direttamente fruibili nella loro evidenza, sprofondano nei secondi piani dei dipinti: figure sommerse da strati di vibrante colore che è specchio della sensibilità in atto . Ne consegue una ritmata lotta tra la figura che tenta di emergere ed imporsi nella sua nitidezza fotografica e la voce dell’artista; quest’ultima finisce per imporsi e la sua pennellata acquisisce in potenza e proporzioni, arrivando ad un punto in cui il soggetto diventa un mero pretesto per parlare di un empatia totale tra il sé creativo e la natura creatrice.

“Fuori dal nido”

La natura diventa un gioco di combinazioni: attività nella quale è la pittrice stessa a rispecchiarsi, è l’Uomo ad entrarci prepotentemente. La confusione eccentrica tra mondo animale e vita umana, si risolve nella trasfigurazione del semplice equilibrio istintuale del primo per confonderlo con le imprescindibile implicazioni culturali del secondo. L’uomo, come il pennuto cui fa riferimento il titolo,ma che qui rappresenta in modo più ampio “l’ESISTENZA”, conosce un’evoluzione che non può dirsi puramente biologica , esso infatti sottostà alle regole della società e ad un’età imprecisata è chiamato a liberarsi dal focolare e a spostarsi per perseguire una propria vita autonoma ed autosufficiente. Laddove il percorso non sia completamente sereno ed univoco, il rischio può includere la disperazione, la perdizione, il senso di smarrimento o, meno drammaticamente, la nostalgia per una struttura colma di certezze e l’angoscia in vista di un futuro privo di contorni perfettamente individuabili.
La pittura di Silvia Canton esemplifica questi due ultimi approcci. In “Fuori dal nido”, il futuro appare nelle vesti di una natura inestricabile e malinconica, sospeso nel suo non essere ancora del tutto definito; è a quel punto che accade il fatto esistenziale: come una goccia di colore scivola dalla tavolozza, così l’uomo ha lasciato il suo nido e sembra allontanarsene progressivamente. Nessuna possibilità di ritorno. La molteplicità di prospettive che la pittrice riesce a lasciare aperte ci spingono ad una pluralità di interrogativi, relativamente alla sorte di quella rossa macchia di colore: è caduta? È stata cacciata? O si è allontanata intenzionalmente? Sta vivendo con naturalezza il suo superamento? O i tempi sono eccessivamente immaturi per il passaggio ormai compiuto?

-Tracce di Natura zampillanti di luce-(“Gocce di pioggia”)
-Inestricabili textures di colore impaludato-(“Laguna”, “I capelli del Sile”)
-Frenetiche sferzate di cromie aeree ed inquiete-(“Il Bosco Blu”, “La danza degli arbusti”)
-Sentieri dipanati entro vertiginose e longilinee strutture floreali-(“Sterpaglie”)
-Epiche distese di campi ambiziosi di monocromia astratta-(“Rosso e Viola”)
-Retaggi figurativi emergenti sotto inestricabili valzer cromatici superficiali
(“Il salice Venier”, “Dentro l’albero”, “Aspettando la primavera”)
-Il movimento dell’allontanamento e dell’ “eterno non-ritorno”- (“Il volo”)
-L’angoscia per il naufragio delle certezze-(“Fuori dal Nido”)

Daniel Buso


Testo critico – Vittoria Magno

Tappe diverse in continua evoluzione, aspetti e momenti di un percorso di studio e ricerca. Sperimentazioni e traguardi di una disciplina del pensiero e della forma attraverso la quale Silvia Canton ha maturato e fatto esplodere il seme della libertà creativa estraendola da formali regole di realizzazione per giungere , nell’accavallarsi di concetti, impulsi e sollecitazioni sperimentali, all’esplosione di una libertà di segno e colore nella quale, superando le costrizioni della forma sono le sensazioni a fare prepotentemente da modelli.
Il suo procedimento creativo si nutre infatti di impressioni – dell’occhio e dello spirito – rielaborate nella felice sintesi di luce -segno – colore.
La sua libertà di “ricostruzione”,che solo apparentemente rasenta “ l’astratto” è infatti intessuta di una forza interpretativa che ferma l’anima dell’immagine ampliando la valenza del soggetto. Complice una tavolozza che si fa pentagramma di monocrome sfumature, rubando all’arcobaleno delle ore e delle stagioni il soffio di irripetibili attimi. Non negando la realtà, ma esaltandola attraverso l’alfabeto del colore:nelle vibrazioni che esaltano il tono su tono come nell’intreccio di diverse accensioni tonali, a “fotografare”atmosfere, attimi di pulsioni, sensazioni visive, interiori risonanze.
E’ così per le “Sterpaglie” che vibrano nella luce del tramonto, come per la sospesa atmosfera dei “Capelli del Sile” ondeggianti a pelo d’acqua fra tonalità di verde giallo e blu. Per il ricamo dei cerchi dorati della pioggia in laguna, come per la particolare atmosfera della “danza degli arbusti”.Per la vorticosa frenesia coloristica che si sviluppa attorno al nido ancora vuoto di “Aspettando la primavera”, alle mille gradazioni di “Fuori dal nido” con il pettirosso immerso nel blu dipinto d blu .E ancora, per l’occhieggiare dei “Ranuncoli gialli” nel mare del tutto rosso, come per il delicato dondolio del salice, per la colorata radiografia del vecchio albero che in controluce svela il ricamato groviglio dei rami nudi, come per la caducità dei diafani “Soffioni”. Fino alle particolari atmosfere più recenti dove il ricordo delle sconfinate distese di tulipan,i si tramuta in un inebriante tripudio di rosso e viola ( “pura energia per i miei occhi e la mia anima” ).

Vittoria Magno


Silvia Canton - Artista e pittrice a Castelfranco Veneto, Italia

Atelier

Via Garibaldi 29,
Castelfranco Veneto (TV)
P.iva 03919010268

Social
Privacy Settings
We use cookies to enhance your experience while using our website. If you are using our Services via a browser you can restrict, block or remove cookies through your web browser settings. We also use content and scripts from third parties that may use tracking technologies. You can selectively provide your consent below to allow such third party embeds. For complete information about the cookies we use, data we collect and how we process them, please check our Privacy Policy
Youtube
Consent to display content from - Youtube
Vimeo
Consent to display content from - Vimeo
Google Maps
Consent to display content from - Google