Pratiche di resistenza – Martina Cavallarin
Mobilis in mobile, era questo il motto di Capitan Nemo di Julius Verne. E l’Arte Contemporanea è un organismo in transito nel flusso asistematico dell’esistenza, un sismografo delle questioni del mondo che si occupa delle urgenze della società dalla quale, necessariamente, non si discosta.
L’artista, oggi più che mai, è dunque un manipolatore di segni che intercetta e raccoglie, documenta, registra, decodifica, frammenta e ricompone dall’analisi di un paesaggio reale, producendo itinerari nel paesaggio dei segni stessi presenti nell’opera. Spazio di negoziazione, l’arte è il territorio magico nel quale l’artista si fa antropologo visivo in costante stato di allerta. E l’allerta di Silvia Canton si concentra su un tema centrale della contemporaneità in lotta per trovare un punto di raccordo tra le necessità dell’uomo e l’ambiente nel quale abita. Il Fiore del Deserto rappresenta dunque una pratica di resistenza, dolce ma inesorabile, disegnata con il pennello e alimentata da materiali di recupero. Si tratta di un processo che parte da lontano e mette in dialogo due realtà geografiche che, quasi all’unisono, echeggiano come un grido del pianeta, un’evidenza di una crisi già in atto, tangibilmente presente. Il titolo della mostra prende spunto dalla poesia “La ginestra” – il fiore del deserto appunto – di Giacomo Leopardi. Questa pianta rappresenta la fatica dell’uomo nel superare la sofferenza; nasce in luoghi impervi come ambienti vulcanici e desertici, tuttavia è bella e profumata. Nella sua poesia Leopardi ripropone la questione sulla natura matrigna, ma non rinuncia a un afflato di speranza e positività. E la poetica di Silvia Canton lavora su tale dualismo narrando di catastrofi annunciate e di effetti collaterali prodotti dal fare umano, la natura questa volta è al collasso e siamo noi i prevaricatori, la schisi è in atto, ma la promessa del cambiamento non può e non deve mancare. Il luogo simbolico che la sua arte veicola e diffonde intende catalizzare anche l’attenzione dei visitatori più distratti giacché l’opera è dispositivo potente e indipendente, massaggiatore infaticabile del muscolo atrofizzato della coscienza collettiva (1.).
La sua pratica artistica, ricca di sedimentazioni e intercessioni linguistiche, analizza nuovi protocolli muovendosi, l’artista, nella duttilità, con comprensione e inclusione. La traduzione che mette in moto mediante i materiali impiegati e le cromie a essi connesse, è concetto necessario per progettare in stato di emergenza, per “tradere” – non solo da un linguaggio a un altro linguaggio, bensì trasportare un concetto da un capo all’altro – e durante questo tragitto stabilire tremiti e identificare interstizi. Il lavoro compiuto per le realizzazione delle opere che narrano di Vaia è lungo e faticoso: raccolta del legno divelto, procedimento di “cottura” attraverso un grande forno a microonde, resina che impregna e solidifica, azione di carpenteria, incursione di supporti metallici e infine, la sapienza talentuosa di pennello e cesello. Canton produce, attraverso tale processo, più che semplici dipinti, sculture a parete intense e armoniche, seducenti. La serie di tele verdi che invece raccontano Venezia, è una sequenza dalla tecnica più strettamente pittorica e tradizionale, nella quale l’immersione in una sola tinta di pigmento dominante, potente, comprime l’immagine sottostante che appare come immersa, anzi affogata, nell’acqua. La paralisi prodotta dallo stallo che la visione complessiva della mostra impone, è anche maniera di perpetrare la presenza e sospendere il caos insito nel corso degli eventi che parlano di distruzione, ma soprattutto aprono alla denuncia esplicitando, l’incontro con l’opera, la necessità di assumere, ciascuno di noi, una presa di coscienza responsabile al fine di controvertere l’entropia in atto.
In un’era in cui tutto appare conosciuto e scoperto e segnalato, il lavoro di Silvia Canton agisce all’interno di una corrente di ricerca innervata nell’Arte Contemporanea che va nella direzione del metodo antropologico – scientifico – esplorativo. Corrente che si snoda nella traccia della mappatura, di un nomadismo intellettuale ed esperienziale che si alimenta d’incursioni in territori e regioni con una particolare metodologia d’indagine, e di riassunto della stessa. Ciò che le interessa, al fine di sottolineare le urgenze che si riferiscono all’ambiente nel quale viviamo, è “la finzione come mezzo per cogliere la realtà” (2.), utilizzando tale finzione come veicolo e il viaggio come una metodica di diagramma. La sua opera ricerca e abita una zona di confine, lavorando su differenze percettive che funzionano come mediani e per scarti minimi.
La filosofia pre-socratica cercava di trovare nella babele del mondo un principio in grado di dimostrare tutte le cose, di fare ordine. L’ambizione di impiegare la forza della ricerca artistica endemicamente sensibile al consesso sociale nel quale opera, risiede nel tentativo di ristabilire la rotta verso un’armonia e un equilibrio che da sempre lega l’uomo al suo contesto, per procedere nel senso del bello e del giusto. E l’indagine di Canton esplora frammenti del tempo e dello spazio, traiettorie che perlustrano differenti geografie, come l’artista etnografo configurato da Hal Foster (3.), ovvero un autore che procede per analisi sulla natura dell’uomo, per tracce e transiti riferiti al suo habitat, da rimarcare o rimodellare in condizione di apertura a tutte le forme di civiltà, al nostro mondo in generale. In questa fase della sua esplorazione che sfocia nell’esposizione Il Fiore del Deserto presso il Museo Santa Caterina di Treviso, Canton si riferisce a due esempi simbolici particolari, due fenomeni disastrosi quali la tempesta Vaia di ottobre e novembre 2018, e l’Acqua Granda che ha colpito Venezia nel novembre del 2019. Si tratta di mettere in scena una rappresentazione nella quale anche colui che dispone è disposto, immerso in una parallasse, in un modo che sovverte le vecchie opposizioni dello studio del fare umano e cerca un sistema diverso, più armonico e che stabilisce una grammatica condivisa tra naturale e artificiale, innovazione e durata. La pittura è solcata e arricchita da materiali naturali e dalla presenza della corteccia raccolta dopo il disastro montano e popolata dalla riproduzione incontrollabile del bostrico tipografo, una piaga che ha e sta attaccando l’abete rosso. Si tratta di un piccolo e subdolo coleottero che si nutre di legno scavando gallerie nella scorza, interrompendo il flusso della linfa fino a portare la pianta alla morte. Un vero e proprio flagello per i boschi già provati da Vaia e da lunghi periodi di siccità, che ha già causato la morte di milioni di alberi. Quella analizzata e composta nell’opera è dunque l’emblema di una battaglia in atto praticata mediante un percorso che cerca di evidenziare, con il pensiero dolce ma determinato dell’arte, una direzione possibile in un mondo al collasso. L’opera di Silvia Canton, fiore del deserto, sceglie di resistere. E lo fa attraverso l’utopia positiva dell’arte e la sua intenzione di cambiare le cose attraversando il quotidiano, risucchiandone l’inerzia. Il cortocircuito sollevato dalla mostra eleva elementi e dettagli – i reperti di Vaia come i pigmenti delle Venezie – a frammenti di una più vasta costruzione che crea un campo di intensità estremamente intimo, ma assolutamente universale, un perimetro iconico di cambiamento e speranza che non vuole rimuovere né cancellare la realtà ma, attraverso la protesi dell’arte, instaurare una dimensione dialettica aperta a un cammino di coscienza.
Cit. Achille Bonito Oliva
Jacques Lacan, Les non-dupes errent (1973, 1974).
Hal Foster, Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Postmedia Srl, Milano, 2006